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Marengp Delfino
Quando, nell’Astigiano, qualcuno fa,ancor oggi, il nome di Delfino Marengo, monferrino di Castagnole (dov’era nato il 1” marzo 1909, morendo nel capoluogo il 29 dicembre 1994) c’e sempre chi facilmente ne ricorda le pagine fittamente disegnate con l’inchiostro di china e certi dipinti, sopratutto acquerelli, che vanno considerati dei veri e propri documenti di un inconfondibile suo mondo contadino.
Vi si poteva passare, infatti, da alcuni significativi ritratti e autoritratti, profondamente segnati dal tempo e dalle intemperie, a certi momenti di vita vissuta, come ne ”I tre all’osteria”, ma soprattutto al più ricco e vario repertorio paesistico, per comprendervi in ogni caso anche le sue ben equilibrate ”Nature morte” – come quella ”col piffero” o quella ”marinara” (con la grande stella e il minuscolo ippocampo) – ma poi anche i ”Fiori”, in vaso e non, d’una sempre meditata eleganza, e soprattutto la campagna, le colline in fiore e sotto la neve, i rami intirizziti dalla brina e le aie in primavera, i vigneti al tempo della vendemmia e i corsi d’acqua tra strette rive innevate.
Di qui, da queste sue testimonianze, d’altra parte, e facile ricostruire una mappa dei lunghi a lui cari, ricordando passo passo le suggestioni che gli stessi motivi potevano aver suscitato anche in altri artisti; dello stesso anbiente come in territori neppur molto lontani, tra l’Alto e il Basso Monferrato, le Langhe o l’Alessandrino, per ricordare tra temi e cadenze grafiche, almeno Giuseppe Manzone e Carlo Terzolo, Massimo Quaglino di Refrancore o Cino Bozzetti, il romito di Borgoratto, fino a Mino Rosso, ad Eso Peluzzi e a Pietro Morando, ognuno con il suo particolare modo di esprimersi, per mettere meglio in luce le affinità come le più marcate differenze di linguaggio.
Di Marengo aveva scritto infatti, tra gli altri, Marida Fassone, nel gennaio del 1995 (subito dopo la scomparsa dell’artista): Filtrava per impalpabili retini luminescenti le colline, gli alberi, i filari di vite, tra i quali viveva, solitario, contemplativo tessitore di un incanto antico e sempre eguale, che lo stupiva, ogni giorno, per la sua forza e la sua bellezza: la Natura.
autorittratto.jpgCon essa Delfino Marengo intrecciava silenzi ed emozioni, in una consuetudine serena, lunga una vita. Una vita persino vivace, per il suo temperamento solido e nodoso come il salice dei sentieri erti di Castagnole Monferrato, ove era nato... e da dove era confluito, negli anni Cinquanta, nell’inquieto clima artistico torinese”.
Fin dal 1952, la mostra personale alla Galleria ”ll Grifo” di Torino (diretta da Angelo Staglino) era stata occasione di incontri con Francesco Menzio e Massimo Quaglino, ma il loro era anche il naturale ritrovarsi di gente che parlava lo stesso linguaggio. A riassumere, tuttavia, l’impegno espositivo di Marengo è stata ancora Marida Faussone che, sempre nel suo scritto 95, ricordava: A Roma, nel 1960, Delfino Marengo ordinò una personale alla galleria ”Fiorani”, a Novara, nel 1973, espose al ”Broletto”, quindi a Torino nel 1982 alla galleria ’Margherita”, raccogliendo il consenso della critica ”ufficiale”, da Giorgio De Chirico a Marziano Bernardi, a Luciano Pistoi, a Luigi Carluccio, ad Angelo Dragone, a Giovanni Arpino. Tra le rade mostre astigiane, Marengo fu presente negli allestimenti de ”La Fornace” di via Ospedale nel 1971, nel ’75 e ’82 con le partecipi recensioni di Silvia Taricco e di Valerio Miroglio”.
Proprio Miroglio fu a parlare d’un tratto caratteristico di spontaneità e di freschezza ”per ”certi vigneti sotto la neve... nei quali la poesia e cosi vibrante ed immediata... da ricordare la forza del paesaggio fiammingo ”per osservare ancora (acutamente) come ’proprio quando i mezzi tecnici sono più elementari Marengo riesce a raggiungere i risultati più importanti”.
Naturalista” era l’ ”emozione” cui, fin dal ’52, si riferisce Luciano Pistoi nel recensire per l'Unità” la mostra torinese di Marengo a ”Il Grifo” ”che sa di lente e accurate esplorazioni a volo d’uccello sulle colline monferrine... nei diversi cambiamenti di stagione”.
A noi toccherà infine il privilegio di indagare, col distacco che consente la più oggettuale considerazione d’una segnica originalità, la misurata scelta che si è fatta tra i suoi fogli pù belli, in occasione di questa mostra.
C’è il paese delle Cinque Terre evocato in una sorta di fondale, tutto arroccato intorno allo svettar di un lampione e quasi radicato, quasi per contrasto, in uno scosceso terreno roccioso, e – cosi diversa – la fiabesca parata dei tetti di Castagnole sotto la neve che ricopre anche gli alberi e gli orti in primo piano, completando quella sorta di intarsio che si sviluppa, nero su bianco, tra una vegetazione tutta sottilmente arabescata: segni come parole, cosi che vengono allora in mente Sbarbaro e Montale.
Marengo appare allora come una sorta di mediatore d’un mondo poetico fatto di “povere cose”: un cespuglio graffito o le cime folte delle conifere che dall’alto cingono un’insenatura marina, scendendo altrove sino ad una spiaggia deserta, ma anche due pini marittimi d’un promontorio proteso sul mare o un semplice muretto, come una stradina in curva sotto i filari o un cesto di fiori secchi: di volta in volta resi con un tratto sottile, o più vigoroso, per ricorrere altrove alla modulata insistenza di certi puntini gia cari a Bozzetti: con i loro addensamenti lungo i crinali, per rarefarsi soltanto la dove il disco del sole tende a farsi più luminoso
Per Eugenio Guglielminetti, quello di Marengo, e un naturalismo non più che apparente, ’per quella ricerca puntigliosa del particolare che fa pensare ad un maestro antico” ma e d’altra parte ”immediata e istintiva... senza strutture intellettualistiche”.
casot.jpgDei suoi disegni ad inchiostro si gode quindi il lucido luminoso del ”nero di china”, ma a volte non meno il suo stemperarsi nell’opaco o la vera e propria diluizione nell’acqua, declinando quindi attraverso i grigi e certi bruni, proprio tra luce e ombra, che sanno di un segno antico e quasi d’una pazienza squisita, orientalizzante.
Cosi i dipinti che rivelano una tavolozza appena accennata, quasi velata da una sorta di fascinosa nebbiolina che diventa come il filtro di un sogno, mentre nei disegni ad inchiostro dove a volte il tratto si fa quasi perentorio, a ragione Silvia Taricco notava che Marengo disegnava quasi come se dovesse incidervi le sue immagini.
Sfilano cosi le immagini di luoghi o di persone che spesso ne hanno vissuto la più segreta esistenza, nel solco dell’aratro come nella pietra quasi modellata dallo scorrere d’un torrente millenario, ma anche nella dignità di un antico castello, come in quella linea di orizzonte che corre come lungo un abisso, nel separare ogni volta il cielo e la terra.
Va allora quasi da se’ che la Natura appaia, a volte, anche più fantasiosa dell’uomo nel costruire le sue immagini comprese quelle che sanno di fatiche e di dolori, quando una nebbia può diventare anche un’insidia, mentre i rami a volte sembrano trasformarsi in serpi, e cosi i desideri in bisogni, tutti come traslati nell’ambito d’una inalienabile poesia.
Ma ciò che maggiormente può colpire, di fronte ad un’intera parete di opere di Marengo, e soprattutto la forte, suggestiva loro interazione che significa, anche, la continuità d’una testimonianza d’uno che in quei luoghi ha vissuto, fin dalla sua fanciullezza e nella giovinezza, quasi coniugando col tempo la propria esperienza, per rinnovarla con una crescente intensità, fino a farne il luogo, ansi lo specchio, d’una intera vita.
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